“Sotto la pelle”, o la mancanza di scopo nell’arte contemporanea

Under the skin

“Sotto la pelle”, o la mancanza di scopo nell’arte contemporanea

Paola Lo Sciuto

Under the skin

Se le opere d’arte contemporanee, il cinema, la danza, il teatro, hanno il ruolo oggi di reiterare le forme pensiero di questa epoca, ben riescono ad essere lo specchio perfetto dell’idea tremenda che qualsiasi azione umana e sociale sia priva di qualsiasi scopo e senso.
Così capita di vedere un film di fantascienza (uscito in primavera in Inghilterra e presentato alla fine di agosto nelle sale cinematografiche italiane), che è davvero un esempio di una delle forme pensiero dominanti: il vuoto di scopo. Ogni azione anche la più efferata dei personaggi non ha alcun senso. Parlo del film Under the Skin di Jonathan Glazer in cui i comportamenti dell’aliena protagonista (Scarlett Johansson) sono confezionati per lo spettatore con delle immagini che cercano di stimolare livelli altri di coscienza e di percezione lavorando sulla non convenzionalità presa in prestito da un mondo visionario, tipicamente artistico.

Under the skin3Lo stesso linguaggio usato nel film vuole incarnare il contemporaneo paradigma che ogni cosa sia fine a se stessa, e le immagini, proprio quelle definite da tutti i giornali “meravigliose” sono, per chi conosce le performing arts e l’arte visiva, prese in prestito, per non dire copiate malamente, dai video dell’artista Bill Viola (le immagini in slow motion su fondo nero e sott’acqua) e dal regista Italiano Romeo Castellucci che ben oltre venti anni fa lavorava sulla forma estetica ma con una ben diversa struttura di senso altamente filosofica. Il riferimento è all’immagine dell’immersione in un liquido nero come inchiostro, da uno degli episodi della Tragedia Endogonidia, e all’immersione nel bianco tipica delle stanze della stessa tragedia, messa in scena dalla compagnia Raffaello Sanzio.

Il linguaggio di questo film non è nemmeno quello cinematografico, visto che non basta tergiversare per tre minuti di seguito sulla stessa inquadratura per farmi capire che l’aliena in questione vuole provare a mangiare una fetta di torta e lasciare così la sua dimensione “ultraterrena” .

Under the skin2La protagonista è una cacciatrice di involucri umani, che alieni come lei indossano come rivestimento esteriore (anche la pelle di donna è una invenzione dell’artista Ciara Guidi mostrata nei suoi spettacoli a partire dagli anni ’90 e nello spettacolo più recente Hei Girl! di Romeo Castellucci).

Scendendo ad un livello più profondo di lettura, posso essere d’accordo sulla considerazione che in ognuno di noi c’è un così detto “alieno”, leggasi doppio, e passino pure le immagini, anche se viste e riviste: le arti visive offrono la libertà di trabordare in un linguaggio così detto artistico che ha il solo fine di farti vedere l’estetica di alcune visioni. Ciò che manca in modo grave è il fine di ogni atto contenuto in questa improbabile scrittura visiva.

La vita dell’aliena e delle persone che la circondano non ha alcun senso, così la loro morte. Questa è la forma pensiero dominante espressa nel film, forse nemmeno poi tanto consapevolmente.
Lo specchio, anche inconscio, che dovrebbe incarnare l’arte è quello di stimolare ad avere più coscienza, ma invece di usare questo innato talento, l’arte deprime, facendo credere che lo scopo che hai trovato nelle tue azioni quotidiane sia solo una mera illusione.

Under the skin1Chiunque, anche partendo da vissuti e considerazioni tipicamente sensoriali e legate alla dimensione puramente materiale, può capire, giunta una certa esperienza dei propri anni e del proprio vissuto, che il cammino della propria vita, gli accadimenti tutti anche se considerati accidentali, hanno invece avuto un senso profondo. I fatti avvenuti hanno in qualche modo migliorato la nostra coscienza e percezione, e sono lo spunto e l’occasione per un cambiamento, un’inversione di rotta. É come se gli accadimenti fossero sempre l’arrivo ad un bivio. Si cadere nel buio o trasformare le cose in meglio, e ci si può accorgere che tutto sommato la nostra vita ha avuto un senso, uno scopo anche se tortuoso. Trovare il senso è il lavoro che ci permette di crescere in coscienza. Questo è il lavoro intimo ed interiore che svolgiamo come esseri in evoluzione.

Tutto il fuori però, tutte le forme con cui entriamo in contatto, quelle visive, sensoriali, gestite dal potere e reiterate tutti i giorni e tutte le notti attraverso ciò che possiamo chiamare divulgazione di massa a senso unico come la radio, la televisione, il cinema, e in forme più o meno raffinate, le arti performative e visive, sembra avere uno scopo preciso: viene detto, ribadito e perseguito il paradigma, lontano dalla nostra intuizione, che invece di trovare un senso nella vita, bisogna pensare alla mancanza di fine e di scopo in tutto ciò che accade e che ci succede. La nostra vita non ha un senso, tutto è casuale.

Se ci si accorge del “trucchetto diabolico“, che consiste nel non farti vedere che invece un senso la vita ce l’ha ed è incredibilmente bello, si può capire anche che tutto questo ha il fine di deprimerci e di evitare che cresciamo in coscienza.
Si può continuare ad andare al cinema o al teatro, anche se spesso ci fanno passare la voglia, con la consapevolezza però che le forme pensiero contenute in qualsiasi linguaggio possono essere riconosciute e non più subite in modo inconscio. Piccolo stratagemma che invece di offuscare, ci aiuta ad allenare la preziosa coscienza.

 

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